L’antico insediamento alla periferia di Bisaccia è uno scrigno di tradizioni e rituali da raccontare. Tanto che un’associazione locale punta forte sulla sua promozione
Ci sono borghi… e borghi. Quelli veri sono comunità coese, gli altri sono semplici agglomerati di case e poco più. I borghi veri sviluppano un tale livello di collaborazione da potersi paragonare a famiglie allargate, con una propria identità e momenti condivisi che diventano rituali di gruppo.
In fondo, si sa, basta una chiesa per formare un borgo. Ma ci vuole una vera identità comunitaria per renderlo effettivamente un luogo speciale, vivo, produttivo. All’identikit del borgo perfetto corrisponde Oscata, minuscolo villaggio rurale rientrante nel comune di Bisaccia, ma che rispetto a quest’ultima rappresenta da sempre un’entità a sè stante.
Antico villaggio di contadini ed allevatori, ancora oggi, nonostante il forte spopolamento a cui si è aggiunta l’emigrazione verso il centro del paese (dove tutti i servizi sono a portata di mano), Oscata è un borgo dall’identità forte e il carattere definito. Nonostante non ci sia un ufficio postale, una scuola e addirittura nemmeno un negozio (alimentari compresi). Una via di passaggio, insomma, come vollero gli Osci quando la fondarono diversi secoli fa.
Una chiesa (quella del Sacro Cuore), una piazza e delle case, ed attorno tanto verde dove coltivare e pascolare. Quanto bastava per essere una comunità autosufficiente. In più Oscata aveva un forno di comunità, utilizzabile cioè da tutti i suoi abitanti: antichissimo manufatto in pietra che ogni paio di settimane accoglieva gli impasti di tutte le famiglie, consentendo a chiunque di sfornare il proprio pane fragrante e profumato, preparato con il lievito madre e cotto a legna.
Terreni fertili e acque abbondanti, frutto di numerose fonti che sgorgano in zona, elementi che hanno aiutato la formazione di questo borgo e della sua comunità, che fino agli anni ’50 era popolato da quasi 300 anime. La matrice contadina delle famiglie rendeva sensata la vita insieme, con una storia comune e cerimoniali condivisi che ne rafforzavano l’unione. Come il palio di Sant’Antonio, che ogni 13 giugno, fino agli anni ’70 del secolo scorso, celebrava la festa del santo patrono: una cavalcata a ritmi sfrenati da Oscata fino a Bisaccia. Rituali ancestrali, eppure moderni, che non solo favorivano la cooperazione, ma rafforzavano i rapporti e consentivano di programmare i prossimi lavori, come per esempio la caseificazione collaborativa.
In tempi antichi, infatti, fare una forma di formaggio non era semplice come oggi. Nessuna famiglia, o quasi, disponeva dei 15 litri di latte per produrre un cacioricotta da grattare poi sui maccheroni. E siccome all’epoca le mucche servivano per i campi (non erano vacche da latte, ma da lavoro), ogni famiglia di Oscata si muniva di almeno una capretta, che forniva il latte per i bimbi e quello per fare il formaggio. Latte che risultava comunque insufficiente per caseificare, tanto da rendere necessaria la cooperazione tra le famiglie che univano i propri sforzi (e il proprio latte), per produrre insieme il formaggio.
Il procedimento era semplice e al tempo stesso delicato. Ogni settimana si designava una famiglia dove andare a mungere le caprette (attenzione: nessuno portava il latte già munto per paura che qualche furbetto lo diluisse con l’acqua) per cui la procedura avveniva live, ogni sera, ad un orario prestabilito. Era necessario concordare un contenitore ufficiale dove raccogliere il latte e soprattutto non si poteva prescindere dalla “catarina”, strumento di misurazione ante litteram, rappresentato da un rametto ben levigato fornito di tacche, che serviva perché tutti apportassero democraticamente lo stesso quantitativo. Quando l’apporto di latte infatti non era sufficiente bisognava rivedersi, il giorno successivo alla stessa ora, e così di seguito fino a che le capre di quella famiglia avesse raggiunto il conferimento stabilito.
Sorgeva a questo punto il problema di appuntarsi il conteggio del latte fornito. Non essendo scolarizzati, nè avendo disponibilità di carta e penna, la soluzione era rappresentata da un altro pezzo di legno, solitamente di rovo o rosa canina (perché molto regolari) su cui veniva apposta una tacca del conferimento avvenuto. Questo legnetto veniva poi spaccato in due in lunghezza e consegnato ai conferitori, in modo da avere ognuno un promemoria affidabile, anche qui a prova di furbetto.
Questi rituali, come le tante storie che orbitano attorno al borgo, rappresentano il motivo per cui l’associazione Oscata inVita ha deciso di dedicare la propria opera per salvaguardare la memoria e divulgare al mondo le peculiarità di questo magico borgo. Tra queste, in particolare, la curiosa capacità di Oscata di ispirare più di uno scrittore e poeta (in primis l’oscataiolo doc Michele Panno).
L’impegno di Tonino, di Peppino, di Fiorenza e di tutti quanti gli altri associati, coordinati egregiamente dal Presidente Domenico La Penna, va nella direzione di fare in modo che la storia e le tradizioni di questo luogo magico si tramandino ancora, lasciando intatta l’anima dei luoghi e sottraendolo all’oblio (come nel caso del forno di comunità, che Oscata inVita sta per riportare all’antico splendore). Perché è soprattutto grazie a loro che Oscata è viva e può ancora raccontarci le sue grandi suggestioni.