L’incapacità dell’Irpinia di fare sistema apre scenari poco incoraggianti che meritano una riflessione. Qualche esempio di come alcune eccellenze irpine vengono sfruttate a fini commerciali senza nessun riferimento alla storia e nessun tornaconto per l’economia del nostro territorio
Soprattutto in ambito agroalimentare il nome dell’Irpinia è indubbiamente sinonimo di qualità. E non parlo solo di prodotti d’eccellenza o di tradizioni di pregio. Mi riferisco anche all’artigianalità di certe produzioni, ciò che oggi di definisce know-how e che dalle mie parti abbiamo sempre chiamato esperienza. Recentemente ho parlato del Salame di Mugnano del Cardinale. Nel descriverlo ed elogiarne le qualità è venuto fuori un aspetto importante che mi ha fatto riflettere e che da più parti mi è stato richiesto di approfondire.
Riassumo: alcune aziende alimentari italiane, anche tra le più grandi, hanno preso a prestito l’antica e prestigiosa tradizione di questo salume prodotto nel baianese, per appropriarsi deliberatamente, seppur legalmente, della dicitura “Salame di Mugnano”. Va detto che non esistendo alcun consorzio di tutela, certificazioni o marchi registrati, è consentito utilizzare tale dicitura senza nessun accenno all’originale irpino (tranne rari casi) e senza la necessità di riconoscere alcunché alla realtà che territorialmente lo ha inventato e che lo produce da oltre 8 secoli.
Questo perché tali industrie non riproducono l’insaccato riferendosi all’ecotipo (vale a dire l’archetipo irpino, autentico per storia e tecniche di lavorazione), bensì si limitano lo considerano come una tipologia (e quindi lo imitano sul piano estetico). E vi assicuro che questa distinzione fa tutta la differenza del mondo. Di fatto si tratta di un’ammissione di qualità: l’imitazione è un modo per dire che questo prodotto a suo modo ha fatto scuola.
Per intenderci, è ciò che quelli del Parmigiano Reggiano hanno evitato, con consorzi, marchi ad hoc e certificazioni europee; in caso contrario, ogni produttore italiano avrebbe potuto denominare il proprio formaggio stagionato vagamente a scaglie come “Parmigiano” senza temere alcuna sanzione e, anzi, appropriandosi (tuttavia senza delinquere) della fama e soprattutto della fatica di tutti coloro che, nei secoli, hanno lavorato per fare il Parmigiano Reggiano DOP, il formaggio più venduto (ed imitato) al mondo. Ed è quello che veneti e friulani hanno fatto con il prosecco, erroneamente diventato con il tempo, il marketing e le giuste politiche sinonimo dell’italianissimo spumante.
Non so dire se il salame prodotto nel Mandamento nella fattispecie sia vittima di un’usurpazione d’identità o oggetto di un caloroso omaggio. Non mi interessa, né mi compete l’aspetto legale della cosa. Eppure la riflessione si fa profonda, considerando che il Salame di Mugnano del Cardinale non è l’unico esempio di questo genere.
Me ne viene in mente un altro, piuttosto simile. Tutti conoscono la ricotta essiccata e salata dalla forma tronco-conica (le cui copiose grattugiate danno vita a capolavori gastronomici di rara bontà). Non tutti però sanno che questa tipologia di ricotta è definita in tutta Italia “tipo Montella”. Evidente il riferimento al paese dei Picentini che propone da secoli questo prodotto caseario (la cui risonanza oltre provincia sembra abbia avuto un’impennata grazie all’opera di un cittadino montellese che nel ‘900 ha avviato una fiorente attività all’estero). Anche in questo caso, tante aziende (per lo più sarde) hanno attribuito una nomenclatura irpina ad un prodotto della propria gamma, facendone un prodotto di punta che porta il nome di un paese irpino.
In entrambi i casi, il salame di Mugnano e la ricotta di Montella sono stati imitati principalmente per la forma peculiare dei prodotti proposti. E probabilmente anche per la grande tradizione e storia che c’è alle spalle. Caso differente è invece legato ad un tipo di pane che in Irpinia non esiste, ma che prende da una località famosissima della nostra provincia il nome utile per rievocare artigianalità e genuinità. È il caso del Pane Montevergine. Qui la forma non centra. La citazione della località sul cocuzzolo del Partenio è probabilmente un’operazione di marketing necessaria ad accattivare la clientela napoletana, giocando sull’appeal che Mamma Schiavona ha sui partenopei.
Qualche anno fa alcuni panifici industriali napoletani hanno cominciato a realizzare e distribuire un pane casereccio, qualcuno lo definisce anche pane cafone per intendere semplicemente quello fatto con il lievito madre. È bastato insomma richiamare uno stile di vita, un mood, un ecosistema riconosciuto e riconoscibile dalle masse, per dare enfasi ad un prodotto che con l’Irpinia non centra nulla (se non forse con l’acqua, che da quelle parti arriva direttamente dall’Acquedotto del Serino). Inutile infatti provare a chiedere del pane Montevergine ad uno qualsiasi dei forni o panifici della provincia. Perché non esiste!
Questi sono soltanto alcuni dei paradossi a cui va incontro il patrimonio agroalimentare dell’Irpinia. Io non so se le citazioni operate siano un omaggio all’identità irpina o un ladrocinio autorizzato della sua identità agroalimentare. Quel che è certo è che siamo di fronte ad un paradosso figlio dell’incapacità di tutelare le nostre eccellenze. Servono iniziative di marketing, imprenditori coesi, istituzioni propositive, serve più potere ma anche più coraggio quando promuoviamo le nostre punte di diamante fuori dal nostro territorio.
Serve un brand Irpinia forte, al di là degli usuali proclami che si esauriscono al primo rimpasto politico o all’esaurimento dei fondi stanziati da Regione o Comunità Europea. Serve un esame di coscienza e un atto reale di amore verso la nostra terra. Se ciò non accadrà, spero che almeno la finiremo di indignarci di fronte a domande del tipo “Ah, ma perché Taurasi è anche un paese?”. Invece di criticare la domanda assurda dovremo cominciare a riflettere sul tempo e le occasioni perdute.