È di poche ore fa la notizia di un atto vandalico al rifugio canadese di Bagnoli Irpino.
Per chi non lo conoscesse si tratta di un rifugio dall’architettura peculiare, sulla cima del Monte Rajamagra, a 1667 metri sul livello del mare. Talmente peculiare da ispirare, si dice, ma io non ne ho mai capito il nesso, il design delle casette di Natale che hanno abbellito Piazza Libertà di Avellino in questo periodo natalizio.
Tornando alla struttura (il cui nome deriva proprio dalla forma a triangolo tipica di queste costruzioni nordamericane), non si tratta di un comune rifugio, ma di un vero punto di riferimento per gli amanti del trekking e delle escursioni. Da anni qui si può passare la notte a contatto con la natura. Da qui si scruta l’orizzonte, arrivando nelle giornate migliori ad ammirare perfino il golfo di Salerno. Da qui sono passati escursionisti esperti e meno esperti, attirati da una struttura tra le più fotografate in assoluto, che più che un punto di sosta rappresenta un’attrazione a sè stante. Raggiungibile attraverso due differenti percorsi, risulta spettacolare con la neve ma anche senza. In qualche modo fa parte degli unicum di Bagnoli proprio come il Lago Laceno, il pecorino bagnolese, la Giudecca.
Nonostante io ne parli al presente, la situazione attuale è che il Rifugio Canadese di Bagnoli Irpino, ad oggi, non esiste più. Raso al suolo da un incendio, pare, di natura dolosa. Ma non è questo aspetto, ovviamente, che voglio approfondire. Bensì tutto quanto, per anni e da anni, ruotava attorno alla gestione di questa costruzione.
“La canadese”, come la chiamavano i bagnolesi, viveva di grandi paradossi. Le numerose associazioni del luogo, di trekking e non solo, la attenzionavano continuamente, soprattutto perché negli ultimi anni si era ridotta a poco più di un rudere. Non è difficile trovare recensioni sul web che ne esaltassero la bellezza, ma allo stesso tempo ne condannassero lo stato di abbandono.
Uno stato di fatiscenza che contrasta fortemente con i requiem che in queste ore da più parti si stanno susseguendo. Pur non conoscendo in maniera approfondita i motivi di tale abbandono, mi tornano alla mente tutti i “Lasciamo stare” di alcuni operatori di settore quando chiedevo lumi in merito. Un laconico commento che invitava a passare ad altro. Ma che mi ha sempre fatto riflettere.
Che oggi nelle dichiarazioni di un’associazione locale si inviti a mettere da parte le “ostilità” mi fa intuire quanto questa vicenda sia profondamente pregna di una certa mentalità. Quella mentalità incapace di valorizzare le proprie bellezze, volutamente sabotatrice dei propri punti di forza, perché è meglio crepare tutti quanti che vedere il fratello-coltello primeggiare. Una mentalità che ha prodotto più macerie di quelle del terremoto del 23 novembre 1980.
Del rifugio canadese del Rajamagra oggi se ne parla come di una persona cara, morta per un atto folle di uno sconsiderato. E forse è così. Mi chiedo però, perché, quando era in vita, questa persona cara venisse trascurata al punto da risultare trasandata, malinconicamente abbandonata a sé stessa. Cartolina eloquente, per i numerosissimi turisti, di un territorio che sembra non amarsi.
Piangere il morto, ora, ha un senso relativo. Forse è un atto dovuto. Ma a me dà l’impressione ancora una volta di come in questa terra i giochi di potere talvolta prevalgano sul bene comune. E il rifugio canadese era un bene comune. Che spero vivamente torni in vita, con l’auspicio che gli errori del passato aprano gli occhi ad una gestione futura più virtuosa.